Sviluppo Personale
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Comfort (?) Zone
Che cosa si intende con il termine “Comfort Zone“?
Generalmente, all’interno di ambienti (più o meno consapevolmente) vicini ad un approccio comportamentale, si utilizza questo termine per riferirsi a quella condizione mentale di comodità e agio che tutti possiamo provare: una serie di condizioni (soprattutto) interne e (in parte) esterne in cui proviamo piacere e sicurezza, nelle quali preferiamo restare e dalle quali difficilmente vogliamo distaccarci.
Ho sempre avuto un grande interesse per il concetto di Comfort Zone, in particolare per la definizione dei confini di questa non meglio definita “zona”, e per come le varie proposte relative a percorsi di Sviluppo Personale lo utilizzavano in contesti più o meno impropri.
Ci siamo sentiti dire che ogni tanto “devi uscire dalla tua Comfort Zone“, perché è solo al di fuori di essa che è possibile incontrare quanto di più prezioso la vita ci può riservare. Soltanto muovendosi, più o meno forzosamente, da una situazione di comodità e di appagamento, possiamo andare incontro a quel campo di possibilità potenzialmente infinito e senza confini, che altrimenti ci sarebbe precluso a priori da condizioni interiori contrarie allo Sviluppo e alla Trasformazione (paura, pigrizia, procrastinazione, insicurezza, scarsa autostima, etc…).
Qualcun altro, con un approccio solo apparentemente più morbido e progressivo, meno traumatico, ci ha detto che invece “devi allargare la tua Comfort Zone“, spostandone progressivamente i confini verso l’inclusione di zone che prima consideravamo esterne. Imparare a stare comodi anche dove si sta scomodi quindi: roba da asceti dell’approccio mentale, da fachiri della Crescita Personale! Devi stare bene anche dove stai male, provaci e vedrai che piano piano ci riuscirai!…
E poi c’è l’approccio più duro e puro, quello a metà strada fra Full Metal Jacket e Indiana Jones, quello in cui il machismo si sposa con una certa marzialità e il camminare sul filo senza rete diventa la regola di ogni giorno, per forza: “devi annullare la tua Comfort Zone!“. Scegli sempre la soluzione più difficile, fai sempre qualcosa di totalmente nuovo, fai della rivoluzione costante la guida di ogni tuo minuto e vivi costantemente alla ricerca della scomodità!
Ora, sicuramente interrogarsi sulla propria Comfort Zone, sui suoi confini, sulla possibilità (e l’opportunità) di metterla in discussione e sulle possibilità che ci perdiamo abusandone, è uno dei punti chiave di qualsiasi percorso di ricerca e di crescita. Se non altro, perché presuppone che si siano sviluppati gli strumenti necessari per averne consapevolezza.
Certamente.
Ma c’è un piccolo dettaglio da non trascurare, una sfumatura fondamentale, una piccola piega nel tessuto semantico dell’espressione Comfort Zone che, se vista e dispiegata, può aiutare a spalancare le pesanti porte della resistenza al cambiamento.
Quello che non torna nella glorificazione del concetto di Comfort Zone, è che spesso molte persone persistono nel rimanere in “zone” che tutto sono meno che confortevoli, piacevoli o agiate! Sanno che alcune cose non vanno così come sono, sentono di avere sensazioni e vissuti spiacevoli, provano sofferenza e disagio, fanno esperienze sgradevoli, quasi al limite dell’insopportabile. Magari se ne lamentano anche con familiari e amici.
Altro che Comfort, agio, comodità, piacere e sicurezza.
Ma continuano a frequentare proprio quelle “zone”, con una tenacia impressionante.
Virginia Satir, probabilmente la più importante terapeuta familiare di tutti i tempi, ha detto:
… la maggior parte delle persone crede che l’istinto più forte sia quello di sopravvivenza, ma non è così. L’istinto più forte è quello di aggrapparsi a ciò che è familiare!
E’ questo che rende così inavvicinabili i confini interni della nostra Comfort Zone, la familiarità.
Tanto che lo stesso Richard Bandler, co-creatore della Programmazione Neuro Linguistica (PNL) e destinatario/testimone della confidenza appena citata di Virginia Satir, propone di sostituire il termine Comfort Zone con il più accurato
…”Familiarity Zone” [zona di ciò che ci è familiare], ossia ambiti che si conosco e a cui si è abituati, ma che non necessariamente mettono la persona a proprio agio. Le persone persistono a rimanere in situazioni anche di intenso disagio semplicemente perché sono condizioni a cui sono abituate: non si rendono conto di avere altre opzioni o scelte possibili, oppure le sole alternative che presentano a se stesse – come, ad esempio, il rimanere sole per il resto dei propri giorni, nel caso in cui dovessero lasciare un partner che le fa star male – sono talmente terrificanti da spingerle a rifiutare il cambiamento.
In pratica, l’aspetto fondamentale sembra essere non tanto l’attaccamento al Comfort, quanto l’aggrapparsi a ciò che è familiare. Ecco perché non raramente si sceglie di restare in “zone interiori” non proprio confortevoli, pur di non rischiare di perdere quello che, con il tempo, abbiamo imparato a considerare familiare.
Così esprimeva lo stesso concetto Charles Garfield:
L’unica differenza fra il solco di un’abitudine e una tomba, è la profondità!
A questo punto potremmo allargare il discorso a concetti come “meccanismi di difesa” e “vantaggi secondari“, “identificazione” e persino “vacuità“, ma rischieremmo di perdere la strada per tornare a casa, senza fra l’altro guadagnarci molto in termini concreti.
E allora, la domanda più importante sembra essere: quali sono i confini della tua Familiarity Zone?